La crisi potrebbe portare a una delocalizzazione del riso italiano? Risicoltori italiani costretti a emigrare per continuare a fare il loro mestiere? Uno scenario pittoresco ma irreale. Diciamo piuttosto che si stanno intensificando e soprattutto stanno cambiando volto investimenti che sono sempre avvenuti. Diciamo che spira il vento dell’est, questo sì. Diciamo che ad emigrare adesso sono anche gli industriali risieri, che possono mettere in campo mezzi superiori e dai quali l’operazione è vissuta soprattutto come l’inserimento in nuovi mercati di consumo. Diciamo però che il rischio di una risicoltura italiana “parallela” che possa rifornire un domani il mercato italiano con varietà selezionate ad hoc per il nostro gusto oggi è fantascienza ma domani – dati i trend dei prezzi – potrebbe non esserlo.
Ma andiamo con ordine, Non è una novità che gli imprenditori risicoli investano a migliaia di chilometri dalla Pianura Padana. In passato, si andava in Sudamerica dove si possono realizzare più raccolti nel corso dell’anno. La distanza e i prezzi del prodotto europeo davano a queste operazioni due profili: si investiva per il mercato locale e per studiare nuove varietà e nuove tecniche. Poi venne la Romania. Erano gli anni Novanta e Duemila. Ceausescu era caduto e a Timisoara incontravi risicoltori italiani attratti più dalle bellezze locali che dalle risaie danubiane. Anche perché, chi cercava di inserirsi in quel mercato doveva esserne veramente convinto: noie con la burocrazia post-comunista in combutta con le mafie locali per spolpare lo straniero, un catasto diviso in due se non in tre che rendeva aleatorio l’atto di vendita e imponeva di acquistare i terreni parcella per parcella, strade dissestate o inesistenti e una rete irrigua a macchia di leopardo che imponevano importanti investimenti e alzavano fortemente i costi dell’operazione, infine un mercato in mano a piccolissimi distributori che faceva dannare l’anima a chi volesse collocale il prodotto in Romania. Ci riuscì uno solo, veramente.
Dario Scotti è arrivato in Romania nel 2002 e ci è rimasto perché poteva permettersi di non guardare al conto economico. Anche lui, inizialmente, ne fece un’operazione essenzialmente immobiliare e anche adesso comprare un ettaro rumeno è conveniente, come ha spiegato recentemente al Sole 24 Ore Roberto Bussolini, direttore generale di Riso Scotti in Romania: «Una buona risaia costa qui, per ora, sui 4mila euro l’ettaro, mentre nel Pavese può arrivare anche a 70mila euro. Ma i prezzi salgono, sia per l’interesse degli operatori internazionali sia per la crescita degli agricoltori locali, che stanno cominciando ad adottare criteri di coltivazione e macchinari più moderni. Il Governo ha interesse allo sviluppo del settore agricolo, vera forza del Paese. Scotti è stata l’azienda che ha fatto ripartire la coltivazione del riso in Romania dopo la pausa post Ceausescu, durante la quale qui si è bloccato tutto. Oggi i terreni sono praticamente vergini e possono dare rese fantastiche. Noi produciamo in Romania riso convenzionale per il mercato rumeno (la Romania importa più riso di quanto ne produca) e riso biologico che vendiamo in Europa. Qui i terreni sono totalmente privi di residui di arsenico, al contrario di quelli del resto d’Europa, e questo rende il prodotto rumeno molto popolare per esempio in Germania». Quindi, il riso rumeno arriva già adesso sulle nostre tavole e non c’è da stupirsi, visto che ha caratteristiche qualitative analoghe se non migliori di quelle del prodotto italiano. Una realtà cui dovremo abituarci. Oggi la Romania è un partner europeo dal roseo futuro agricolo: è già il primo produttore di mais e tra i primi tre di grano (malgrado le basse rese) e riceverà da Bruxelles 17 miliardi tra pagamenti diretti e fondi strutturali tra il 2014 e il 2020. Insomma, è un partner agricolo in crescita, vocato a rifornire i mercati dell’est ma non solo. Tant’è vero che gli imprenditori italiani controllano già 300mila ettari in quel Paese.
Molto meno battuta dai risicoltori italiani è la Russia, che però potrebbe entrare in partita grazie all’interessamento di Euricom. Anche in questo caso, l’iniziativa parte da un gruppo risiero e questa volta non c’è alcun interesse immobiliare in gioco, ma un piano strategico per pesare di più nel mercato internazionale. L’idea dei Sempio (il padre, Francesco, nella foto grande, ha delegato gran parte degli interessi di famiglia al figlio Bruno) sarebbe quella di stringere con il governo del Krasnodar un accordo che in pochi anni porterebbe Euricom a gestire l’intera produzione di riso di quella regione, che è uno dei “granai” russi. Ovviamente, poiché il mercato oggi è veramente aperto, l’apertura di un canale Italia-Russia preoccupa molto i risicoltori italiani… I Sempio hanno gestito in questi anni partite importanti sul riso, in mezzo mondo, ma non in Russia. Secondo stime 1995, nel Krasnodar si coltivano 140mila ettari di riso, più della metà della produzione italiana. Le rese sono spesso più basse delle nostre, ma la partnership con il socio italiano – che porterebbe know how oltre che capitali – punta proprio a farle salire ai nostri livelli. Le condizioni climatiche del Krasnodar, del resto, sono favorevoli. Il ciclo vegetativo è di 125 giorni, il termometro di spinge ai limiti ma partendo dai nostri Baldo, Balilla, Maratelli, ecc. sono stati creati risi resistenti alle basse temperature (8-10 gradi) e alle infestanti. Dal Fusarium ai nematodi, non mancano i problemi, tuttavia il nemico più pericoloso sembra essere la cimice verde che si propaga ogni sette anni, come un’autentica piaga. In compenso, sono disponibili le risorse irrigue, le infrastrutture e la competenza delle maestranze locali. Insomma, gli ingredienti per creare un polo russo del riso “italiano” ci sono tutti. (Nella foto piccola, una scatola di riso russo) (30.12.13)