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FIERA IN CAMPO: A CHI FA BENE IL FINTO BIO?

da | 1 Mar 2015 | NEWS

finassi«Dicono che il biologico faccia bene a chi lo mangia. Sicuramente fa bene a chi lo produce!» Con questo slogan l’esperto di risicoltura Antonio Finassi ha concluso il suo intervento alla Fiera in campo, sabato mattina, nell’ambito del convegno organizzato dall’Anga  sul tema del finto riso bio e dell’etichettatura d’origine, con questo titolo: «Noi mettiamo la faccia perché il riso abbia la sua». Appuntamento atteso, anzi evento clou della fiera: pienone, come previsto. In regia, a dirigere il dibattito, i presidenti delle sezioni Anga di Vercelli, Alice Cerutti, e di Novara, Giovanni Chiò, che hanno gestito gli interventi con grande equilibrio. Il rischio della rissa, obiettivamente, c’era tutto, dopo che proprio l’Anga, con un documento che si è ritagliato a pieno titolo un posto nella storia dell’associazionismo agricolo, ha deciso di dire tutto quello che nessuno osava dire su riso biologico (http://www.risoitaliano.eu/il-finto-bio-esiste-urgono-controlli/). Una posizione che si è tradotta nel “Pacchetto Riso” (si può scaricare cliccando QUI) e che, per quanto abbia superato la verifica interna, ha creato qualche imbarazzo ai vertici di Confagricoltura (ieri è apparso in Fiera – senza prendere mai la parola – il presidente dell’Ente Risi e dell’Unione agricoltori vercellese Paolo Carrà, che al termine della proroga in corso potrebbe essere nominato commissario) ma soprattutto alle centinaia di risicoltori iscritti a questa e ad altre organizzazioni agricole che producono riso certificato biologico ma non richiedono gli aiuti comunitari che presuppongono controlli pubblici più approfonditi di quelli effettuati dalle società private di certificazione (http://www.risoitaliano.eu/tutto-quello-che-avreste-voluto-sapere-sul-biologico/).

Si è partiti da lì e non si è andati oltre, eppure la discussione è durata più di tre ore, calamitando ugualmente l’attenzione del pubblico, il che dimostra come siano aperte le questioni e divergenti le posizioni, ma anche quanto sia difficile il cammino della trasparenza nel mondo dell’impresa agricola, anche quando sono gli imprenditori stessi a coltivarne la cultura. Non si è andati oltre forse perché i politici erano impreparati ad un convegno tecnico di quel livello: resterà negli annali l’intervento di una piacente europarlamentare che, per dimostrare di padroneggiare il tema, ha sostenuto che un importante gruppo risiero italiano produce dolci e snack con riso cambogiano, spargendo sale sulle ferite dei presenti (ammesso che si utilizzi veramente l’indica nell’industria dolciaria).

Si è partiti da lì e non si è andati oltre perché il funzionario responsabile del settore ambiente che rappresentava Confagricoltura al convegno ha “assolto” le società di certificazione ma soprattutto ha rivelato che il regolamento europeo sul biologico, cui i giovani dell’Anga hanno legato le speranze di revisionare l’impianto normativo che rende possibili le truffe, si è arenato e anche sull’etichettatura d’origine la Commissione europea non pare animata dallo stesso coraggio dei giovani agricoltori.

Si riparte insomma dal Pacchetto Riso. Cerutti e Chiò hanno ribadito le richieste, nell’interesse dei consumatori oltre che delle aziende serie. Per l’etichettatura: indicare nell’etichetta sia il luogo di coltivazione sia quello di trasformazione, mentre oggi il riso importato e che transiti transitando in uno stabilimento di lavorazione del Paese diventa italiano. Per il bio, invece, si richiedono controlli in campo durante le diverse fasi vegetative (oggi si effettuano soprattutto controlli documentali); indennizzo dei produttori impossibilitati a commercializzare il biologico per effetto di contaminazioni accidentali, esclusione dei trasgressori dal circuito del bio, pubblicità dei dati sui produttori, ecc. Una posizione sostenuta dal parere scientifico di due esperti del calibro di Giuseppe Sarasso e Antonio Finassi. Il secondo, in virtù, come ha detto, dell’età, si è attribuito “licenza di uccidere” spiegando perché i numeri inchiodano il falso riso biologico: «non solo è inconcepibile – ha detto – che le rese di queste produzioni, ottenute senza prodotti di sintesi, siano pari a quelle del prodotto convenzionale, ma dovrebbero essere inferiori di molto, perché il vero biologico presuppone che l’agricoltore effettui una scrupolosa rotazione dei terreni». Ma non è tutto. Secondo Finassi, nel terreno c’è sempre una ricca banca dei semi, con varietà di infestanti “dormienti” che il mancato diserbo chimico rinvigorisce «ragion per cui, ha spiegato, fare del vero riso biologico è molto difficile, perché o si è sovrastati dalle malerbe, oppure invece di fare la rotazione si fa l’avvicendamento colturale, ad esempio con la soia, e allora si diserba, ma in questo caso si è fuori dal vero sistema di coltivazione biologica». In altre parole, per produrre bio con soddisfazione economica, cosa che in molti hanno inteso fare da quando i prezzi del riso sono crollati per effetto delle importazioni, bisogna “aggiustarsi”. Da leggersi in questo senso la conclusione di Finassi, che abbiamo riportato all’inizio: «Dicono che il biologico faccia bene a chi lo mangia. Sicuramente fa bene a chi lo produce!» (Nella foto grande, i giovani dell’Anga all’apertura della Fiera. Con il microfono, la presidente Cerutti) (01.03.15)

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