Caporetto. La rotta e la ritirata. Dal 24 ottobre al 19 novembre di cent’anni f. Fu un capitolo infausto della storia nazionale, raccontato da “La risicoltura e la Grande Guerra” di Giuseppe Sarasso e Paolo Viana (edizioni Interlinea, Novara), uno studio sulle vicende della filiera risicola negli anni del primo conflitto mondiale. Il libro racconta il contributo della filiera risicola nazionale al conflitto. Tra l’altro, spiega che l’ingresso dell’Italia in guerra portò ad archiviare i principi del liberalismo che fino ad allora avevano dettato legge. «Ufficialmente, andava combattuta l’inflazione. In realtà, era solo una delle smorfie del volto autoritario dello Stato nazionale. Un decreto luogotenenziale dell’aprile 1916 autorizzò il Ministero dell’Agricoltura a stabilire i prezzi massimi di tutti i generi alimentari e di largo consumo: il prezzo ufficiale del riso al dettaglio oscillava tra le 50 e le 65 lire al chilo, valore che spesso rimase inapplicato. Intervenne il razionamento, allo scopo di limitare i già magri consumi: invece di socializzare l’alimentazione, però, Roma riuscì soltanto a socializzare la fame e il sistema andò definitivamente in crisi nel 1918, quando l’epidemia di influenza spagnola decimò e sconvolse l’organizzazione annonaria». Tra i provvedimenti che contraddistinsero il periodo bellico – prosegue il racconto – vi è un altro decreto «su cui si misurò tutta la creatività della Sperimentale: quello che permetteva la miscelazione delle farine di riso nella panificazione. Nel marzo del 1915 il governo, per far fronte all’emergenza alimentare, rese obbligatoria la produzione del “pane unico”, preparato con farine più grezze del normale, private della sola crusca. Si passò dal 70 all’80% di resa; l’anno successivo all’85, e al 90 quello dopo. Nel 1918, infine, divenne obbligatorio miscelare farine di grano e di mais. Dopo molte insistenze della filiera risicola, che aveva intrapreso questa battaglia ancor prima dell’ingresso dell’Italia in guerra, fu permesso anche l’uso di farine di riso, ma questa possibilità non divenne un obbligo». Il saggio storico di Sarasso e Viana ci offre anche un quadro statistico interessante da cui si evince che la guerra devastò l’agricoltura del Continente europeo ma non piegò la risicoltura nazionale: «Va ricordato che il riso italiano rappresentava già allora un caso eccezionale sul mercato delle commodities agricole e che la Grande Guerra comportò delle conseguenze disastrose nel mercato dei cereali. In Germania la produzione agricola durante il conflitto calò di un terzo, in Francia fu anche peggio; il granaio austro-ungarico, cioè la Galizia, a cavallo delle attuali Polonia e Ucraina, si spopolò in seguito all’invasione russa… I raccolti cerealicoli tra il 1914 e il 1918 aumentarono solo in Inghilterra e negli Stati Uniti. La produzione del riso italiano invece non subì delle contrazioni consistenti, che furono contenute nel 7%: in qualche caso grazie al clima ma soprattutto perché la risicoltura italiana era un’agricoltura tecnicamente evoluta, che alla tradizionale esperienza contadina associava una competenza tecnica che altri settori non potevano vantare. Come abbiamo accennato, questo progresso fu anche il frutto della divulgazione e dell’applicazione delle attività di ricerca nel miglioramento varietale e nelle tecniche di coltivazione, sviluppate nella Sperimentale, che riuscirono, almeno in parte, a controbilanciare le difficoltà dovute alla guerra. Una prova? Tra il 1894 e il 1913 il rendimento unitario del risone era passato da 18,20 a 33,04 quintali per ettaro, con un incremento del 181,5%, contro il 124,7 registrato dal frumento e il 123,3 registrato dal mais nello stesso periodo storico. I rendimenti del riso tra il 1915 e il 1918 furono rispettivamente di 38,29 – 36,46 – 38,11 – 37,82 quintali per ettaro. Gli italiani erano, già allora, orgogliosamente leader europei della coltivazione di riso, con 130-140 000 ettari investiti che interessavano, calcolando le rotazioni, 300-400 000 ettari di terreni irrigabili, con una produzione che nel 1916 veniva stimata in 5,2 milioni di quintali di risone, per un valore di oltre 150 milioni di lire, sottoprodotti compresi. Nel 1870-1874, come conseguenza dell’apertura del canale Cavour, si era arrivati alla superficie record di 232 000 ettari, poi crollata a causa dei risi asiatici, divenuti concorrenziali grazie all’apertura di un altro canale, quello di Suez, che abbatté i prezzi di trasporto». Il libro “La Risicoltura e la Grande Guerra” di Giuseppe Sarasso e Paolo Viana è reperibile presso Libreria Mondadori Vercelli, Libreria Giovannacci Vercelli, Libreria Lazzarelli Novara, Libreria La Talpa Novara. Per presentazioni e convegni: direzione@risoitaliano.eu