«Tutto è veleno». Questo aveva ipotizzato Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim, detto Paracelsus o Paracelso (1493 – 1541), medico ed alchimista svizzero. La sua intuizione è ancora valida oggi? Prendiamo ad esempio dell’ottima acqua potabile: si raccomanda di berne almeno due litri al giorno, per il nostro benessere. Pochi sanno che se ne bevessimo tre litri in un’ora, rischieremmo seriamente di morire: anche l’acqua può diventare veleno in funzione della dose, come prevede il postulato di Paracelso. Con quante sostanze veniamo in contatto quotidianamente, e quante ne assumiamo tramite l’acqua ed il cibo, incontaminati solo negli annunci pubblicitari? Un numero enorme, e non tutte catalogate. Le Autorità sanitarie ne controllano molte, ed impongono dei limiti legali alla massima concentrazione accettabile delle sostanze ritenute più pericolose e più diffuse. Questi sono definiti ed aggiornati continuamente da Enti di ricerca con metodi sperimentali. Non essendo ancora possibile ottenere dati attendibili mediante modelli matematici su computer, al momento è indispensabile utilizzare delle cavie, aggiungendo al loro cibo per lunghi periodi, convenzionalmente per due anni, dosi crescenti della sostanza, fino a verificare eventuali effetti negativi. In questo modo si definisce il NOAEL, acronimo inglese che significa “massima dose che non procura alcun effetto avverso”. In funzione della quantità dei consumi umani dei diversi cibi o bevande, si calcola l’ADI, acronimo di “massimo consumo giornaliero ammissibile”, di ogni sostanza sospetta, e da questo la concentrazione massima ammessa negli alimenti, che per precauzione viene divisa per 100. Si ritiene così di garantire largamente la sicurezza alimentare e delle acque potabili. Naturalmente si parla di dosi piccolissime, espresse in parti per milione per i cibi, ed in parti per miliardo per l’acqua, che richiedono sofisticati e costosi strumenti per essere misurate.
Chi volesse avere un quadro completo delle attuali conoscenze in materia può eseguire ricerche su varie basi di dati tossicologici disponibili gratuitamente su internet, avendo cura di fare riferimento a dati gestiti da Enti pubblici, non certo ai social media. I meglio forniti sono quelli del Governo USA, del Governo Giapponese e quello del WHO, Organizzazione Mondiale della Sanità. Il nostro Ministero della Salute ne sta approntando uno, non ancora funzionante. Per ogni sostanza esiste il rinvio a centinaia se non migliaia di studi sperimentali: facendo la sintesi dei diversi risultati vengono ricavati i limiti di legge, diversi da Nazione a Nazione. In Europa abbiamo i limiti più restrittivi al mondo per i fitofarmaci.
La popolazione, in gran parte urbanizzata e sempre più lontana da un rapporto diretto e semplice con la natura, sogna di vivere seguendo idee, aspirazioni, talvolta sogni, ispirati da fumetti e documentari ecologisti. E’ quindi ben propensa ad accettare l’ideologia, rafforzata da un intenso battage pubblicitario guidato da interessi economici, che descrive una netta dicotomia tra le sostanze di origine chimica, sempre velenose, e quelle di origine naturale, sempre benefiche. La realtà è purtroppo invece molto più complessa, e non può essere rappresentata tramite una divisione netta tra il bene ed il male, anche se sarebbe molto rassicurante e mentalmente poco faticoso disporre di certezze assolute. Purtroppo la natura ci fornisce anche prodotti molto dannosi: gli scienziati continuano a scoprire sostanze naturali che si rivelano pericolose per la salute, anche in minime dosi. Citiamo ad esempio le aflatossine, rilasciate nelle piante commestibili da alcune specie di microscopici funghi parassiti. Tra queste ne sono state rilevate alcune fortemente cancerogene. Da pochi anni al contenuto di aflatossina B1 nel mais sono stati posti limiti severi, inferiori per il consumo umano, leggermente superiori per i mangimi degli animali. In caso di malattie o di stress della pianta anche i limiti per i mangimi sono facilmente superati; in tal caso quello che fino a tre anni fa veniva tranquillamente mangiato, oggi viene destinato alla produzione di biogas. Un elenco delle aflatossine (dette anche micotossine) più note, alcune di antica conoscenza (ergotossina nella segale), altre scoperte recentemente (ocratossina A nel vino), è consultabile in tabella 1)
tabella 1) aflatossine: nome, effetti sulla salute, fungo parassita che la produce.
AFLATOSSINA | ATTIVITA’ TOSSICOLOGICA | SPECIE DEL PARASSITA |
Aflatossina B1 | Cancerogena, teratogena | Aspergillus |
Citrinina | Tossica per i reni | Penicillium, Aspergillus |
Α-Cyclopiazonic acid | Neurotossica | Penicillium, Aspergillus |
Ergotossine | Vasocostrittore, neurotossica | Claviceps |
Fumonisina B1 | Cancerogena, neurotossica | Fusarium |
Ocratossina A | Cancerogena, tossica per i reni | Aspergillus, Penicillium |
Patulina | Mutagena, antibatterica | Penicillium |
Penitrem A | Neurotossica | Penicilliun |
Phomopsina A | Tossica per il fegato | Phomopsis |
Sporidesmina A | Tossica per il fegato, fotosensibilità | Pithomices |
Trichothecenes (T-2) | Tossica per la pelle, ematopoietica | Fusarium |
Zearalenone | Estrogena, irregolarità riproduttive | Fusarium |
Il progredire della conoscenze ha evidenziato che i vegetali comunicano tra di loro utilizzando particolari sostanze chimiche, trasmesse attraverso l’aria o le radici. In questo modo “avvisano” le piante vicine affinché mettano in atto le loro difese da incombenti attacchi di organismi parassiti. Le piante così “avvisate” innalzano al loro interno i livelli di alcune sostanze tossiche per i parassiti, dette fitoalessine. Se mangiamo queste piante quando sono minacciate dai parassiti, assumiamo quindi anche delle fitoalessine, tipiche per ogni specie. In tabella 2) sono elencate alcune sostanze note ai più, alcune per noi benefiche solo se assunte in piccole dosi, altre molto dannose.
Tabella 2) Alcuni esempi di fitoalessine.
ALCALOIDI | MORFINA, CHININO, ATROPINA, NICOTINA, CODEINA, CURARO, CICUTA, CAFFEINA, CANNABINOLO |
FLAVONOIDI | ANTOCIANINE, TANNINI, RESVERATROLO, CUMARINE |
TERPENI | TREMENTINA, ARNICA, AMBRA, SAPONINE, CAROTENOIDI, MENTOLO |
Il gruppo delle fitoalessine comprende moltissime sostanze: intorno al 1980, quando iniziava a salire l’attenzione sulla chimica di sintesi, ne furono isolate una ventina con l’intenzione di usarle come antiparassitari naturali. Pur con i criteri molto meno stringenti di quelli odierni, nessuna possedeva i requisiti di sicurezza per poter essere autorizzata all’uso sulle coltivazioni.
L’ ideologia che distingue tra naturale = buono e chimico di sintesi = cattivo non trova quindi riscontro nella realtà. E’ più pericoloso consumare vegetali trattati chimicamente contro i parassiti, con il rischio di trovarci tracce di pesticidi chimici, o vegetali attaccati dai parassiti, con rischio di aflatossine e fitoalessine? L’opzione del rischio zero, anche se desiderabile, non appartiene al mondo reale.
I vegetali coltivati, nonostante le loro strategie, in condizioni climatiche avverse soccombono ai parassiti, con riduzioni importanti delle produzioni. Un esempio è il frumento, attaccato da un fungo microscopico che causa la malattia detta “ruggine”. Alcune primavere molto umide, quindi favorevoli alla malattia, verificatesi prima del 1789 causarono in Francia una grave carestia, riconosciuta da molti storici come fattore scatenante della rivoluzione francese. Sempre per la malattia del grano, impossibile da curare in assenza di fitofarmaci, possiamo citare un lunghissimo elenco di carestie: il fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti ha documentato ben 124 carestie avvenute nella sua ricca città durante i 584 anni trascorsi tra il 1165 ed il 1749. Oggi la facilità dei trasporti può in parte ovviare a questo problema, consentendo il rifornimento da aree lontane con andamento climatico migliore; a causa del continuo incremento della popolazione mondiale lo stratagemma non è più sufficiente; se le bocche da sfamare continuano a crescere ai ritmi attuali (+ 1,5 miliardi dal 2000 ad oggi) esiste un fondato timore di dover sperimentare nuovamente le carestie che sembravano debellate. E’ quindi indispensabile proteggere le coltivazioni utilizzando le armi principali a nostra disposizione: la genetica e gli antiparassitari. Il miglioramento genetico deve essere proseguito continuamente alla ricerca di piante resistenti alle malattie, dato che il parassita, mediante mutazioni genetiche spontanee, in pochi anni riesce a riprendere la sua virulenza. I fitofarmaci, a scopo diffamatorio, sono stati ormai rinominati come “pesticidi”, da una scorretta traduzione del termine anglosassone pesticides. La radice pest in inglese significa parassita delle piante, mentre in italiano ricorda la peste, malattia che ancora evoca paure ancestrali. Nel tempo sono stati sviluppati moltissimi fitofarmaci, a partire dallo zolfo (1852), alla poltiglia bordolese (1880). Con i progressi della chimica di sintesi, a partire dalla metà del ‘900, gli agricoltori hanno avuto a disposizione moltissime sostanze per controllare le malattie delle piante. Anche queste perdono gradualmente la loro efficacia, in quanto i parassiti mutano acquisendo la resistenza; la ricerca metteva continuamente in commercio nuovi ritrovati. Dagli anni ‘60 del ‘900, grazie ai “pesticidi” il problema della disponibilità di cibo nei Paesi sviluppati come il nostro è stato dimenticato; in pochi anni si è passati dalla fame alla dieta. L’entusiasmo di aver superato i pericoli di carestie portò a trascurare la tossicità di questi nuovi ritrovati per l’uomo, in particolare per gli operatori che li distribuiscono. Le paure della popolazione si sono trasferite dalle carestie alle malattie tumorali, le cui cause sono molto varie e non ancora completamente note. La crescita della loro frequenza è conclamata, in parte per la maggiore durata della vita (molte altre malattie sono state debellate), ma sono certamente favorite dall’alimentazione scorretta e dall’assunzione di sostanze dannose di origine chimica (es. benzene) o naturale (es. nicotina). Oggi la vox populi addita prevalentemente i “pesticidi chimici” come causa primaria delle malattie tumorali. Gli agricoltori, e nelle nostre terre in particolare i risicoltori, sono da tempo considerati come “untori” che appestano l’ambiente ed il cibo. Il “boom” economico dei primi anni ’60 ha spostato rapidamente le mondine a lavorare nelle fabbriche, quindi l’introduzione dei primi “pesticidi” in risaia fu fatta frettolosamente senza troppi riguardi alla tossicità dei medesimi. Presto però le Autorità hanno iniziato ad imporre limiti sempre più stringenti, fino a giungere alla direttiva UE 128/2009, che ha deciso la revisione di tutti i “pesticidi” autorizzati applicando norme sanitarie molto più severe. Delle circa 1.000 sostanze precedentemente in uso, 7 sono state revocate per dubbi di possibili effetti tossici, 680 sono state ritirate volontariamente dalle industrie, prevalentemente perché, essendone scaduto il brevetto, e con questo la possibilità di vendita esclusiva, nessuno ha avuto la convenienza di produrre un dossier tossicologico dai costi multimilionari per rinnovarne la registrazione. Ne sono rimaste circa 250, ed è in atto una continua revisione. Attualmente si è risvegliata la ricerca per ottenere antiparassitari naturali, ma è molto difficile ricavare caratteristiche migliorative rispetto ai prodotti di sintesi. Ad esempio, l’insetticida più efficace autorizzato e largamente utilizzato nelle coltivazioni biologiche è lo Spinosad, estratto da batteri che vivono nel terreno. Se confrontiamo il NOAEL dello Spinosad, di 2,4 mg/kg/giorno, con il benzene, 1 mg/kg/giorno; con il tanto bistrattato glifosate, accusato di essere cancerogeno allo stesso livello dei fritti e delle carni rosse, 500 mg/kg/giorno; con un diserbante per il riso, il Penoxsulam, 1000 mg/kg/giorno, rileviamo che la dose dannosa del naturale Spinosad è molto più vicina a quella del benzene rispetto a quella degli erbicidi oggi autorizzati. Le autorità competenti, che fino ad un paio d’anni fa non chiedevano analisi tossicologiche per l’utilizzo dei “pesticidi naturali”, oggi li ha assoggettati agli stessi controlli previsti per i “pesticidi chimici”. Tanto per fare un paragone riguardo ai livelli di precauzione nei confronti dei “pesticidi”, l’antigerminello Oxadiazon, che non sarà più ammesso dalla prossima campagna, presenta un NOAEL di 5 mg/kg/giorno. Un uomo che pesa 70 kg, per raggiungere questo livello di contaminazione, dovrebbe, continuativamente per 2 anni, assumere 350 mg al giorno, bevendo ben 216 litri al giorno dell’acqua più contaminata mai rilevata da ARPA (Fosso di scarico di risaia, Borgolavezzaro 2012).
Il livello di prudenza applicato è più che evidente, e sta causando difficoltà ai risicoltori nell’avere a disposizione strumenti sufficienti a combattere le infestanti che, se trascurate, facilmente arrivano ad azzerare la produzione. Il sistema tradizionale della monda manuale è oggi impensabile per i costi che avrebbe; fortunatamente le condizioni sociali permettono alle donne italiane di esercitare attività più attraenti. Diversa è la situazione nei Paesi dai quali si importa il riso. Ad esempio in Cambogia il salario giornaliero di un operaio agricolo equivale a 5 dollari, al cambio attuale circa 4 euro, più o meno il salario che percepivano le nostre mondine nella prima metà del ventesimo secolo (il valore di 15 kg di risone, oggi circa 4 Euro). A questi prezzi, i 40 giorni necessari a mondare un ettaro costano 160 euro, la metà di quanto spende un risicoltore italiano in diserbanti. Il riso importato da quei luoghi presenta però altri problemi: in quel clima sono indispensabili parecchi trattamenti insetticidi, con prodotti da noi vietati, che lasciano tracce nel riso lavorato. Le tecniche di essiccazione sono ancora approssimative, per cui si possono trovare partite che presentano elevati livelli di grani danneggiati dal calore di fermentazione, che facilmente contengono aflatossine: questa è la più frequente causa dei respingimenti alla frontiera, quando vengono individuate (i controlli vengono effettuati a campione). La qualità delle acque irrigue in quel Paese non è monitorata come da noi, per cui una elevata presenza di inquinanti tossici di origine industriale e domestica non è improbabile. La nostra Europa, più attenta al volume dei commerci che alla qualità degli alimenti, per agevolare le importazioni di riso Basmati da Pakistan ed India, consente un limite di grani danneggiati da calore 10 volte superiore rispetto a quello imposto al riso italiano. Un buon motivo per consumare riso italiano, ammesso che Bruxelles ci permetta di leggere sulle confezioni il luogo di coltivazione del riso.
Sono in corso varie sperimentazioni, peraltro condotte in gran parte da soggetti privati, per riuscire a coltivare il riso senza diserbanti e senza mondine; i risultati per ora sono molto parziali. Se così non fosse, tutti i risicoltori “convenzionali”, che rappresentano oltre il 90% del totale, oggi in gravi difficoltà economiche, potrebbero facilmente impadronirsi di eventuali tecniche efficaci per riposizionarsi sul ricco mercato del riso biologico. In una pianura aperta e sprovvista di alberate, si lavora alla vista di chiunque voglia e sappia osservare. Una opportunità per il futuro è data dalle tecnologie dell’Agricoltura di Precisione: complessi sistemi elettronici che spruzzano gli erbicidi unicamente sulle infestanti, senza toccare le piante di riso. Ve ne sono già alcuni in commercio per altre colture, altri in sperimentazione anche sul riso. Questi metodi potranno azzerare le minime e sporadiche contaminazioni attuali pur eseguendo una efficace lotta alle infestanti.
La scelta di acquistare alimenti “biologici”, meglio definiti come non trattati con “pesticidi”, ammesso che se ne possano trovare molti di autentici, presenta il rovescio della medaglia di potervi ritrovare contaminazioni da aflatossine, oppure da fitoalessine nel caso che le piante siano riuscite a difendersi dagli attacchi parassitari. Se invece ci si rivolge al convenzionale, esiste il rischio di incappare in qualche partita (le statistiche italiane ne indicano meno dello 0,3% del totale) che per errori o malafede del coltivatore presenta limiti di contaminazione superiori alla soglia di sicurezza. Ricordiamo che la soglia di sicurezza è inferiore di 100 volte rispetto al livello di dannosità testato sperimentalmente (NOAEL). Anche se si incappasse in partite con dosi inquinanti doppie o triple del consentito, saremmo comunque rispettivamente 50 e 33 volte al di sotto della dose pericolosa, che comunque andrebbe assunta giornalmente per due anni consecutivi. Le probabilità di essere contaminati da cibo sono comunque molto basse; le notizie di problemi avvenuti riguardano piuttosto cattiva conservazione e contaminazioni batteriche o fungine di cibi preparati. Ad esempio nel 2011 in Germania un ceppo di Escherichia Coli contaminò una coltivazione di germogli “bio” di fieno greco, causando 49 morti e 4.178 ospedalizzati.
In conclusione, la possibilità di disporre di bevande ed alimenti totalmente esenti da sostanze potenzialmente dannose esiste solo nel mondo fantastico della pubblicità, non in quello reale di oggi, abitato da 7,5 miliardi di persone che lo inquinano in mille modi. Viene spesso sbandierato un “principio di precauzione”: purtroppo la sicurezza totale non esiste nella vita umana, o meglio alla nascita abbiamo una sola nefasta previsione sicura, che prima o poi si avvera. Tra le scelte che ci sono concesse, possiamo solo perseguire quelle più idonee a limitare i rischi, vigilando affinché le dosi di sostanze dannose assorbite per bocca, inalazione o contatto cutaneo siano talmente basse da non trasformarle in veleno. Autore: Giuseppe Sarasso