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IL MIGRANTE CON LO ZAPPONE

da | 18 Ago 2020 | Non solo riso

A guardare l’elenco dei cognomi e la percentuale di quelli troncati si ha l’impressione di stare in una succursale veneta. Ed è proprio così. In nessun altro posto come in Lomellina l’economia e la cultura locale, in senso lato, sono stati influenzati in modo così forte dalla presenza dell’immigrazione dal Veneto. Avendo come evento scatenante la fuga  forzata di circa 180.000 persone che rimasero senza nulla in seguito alla devastante alluvione del 1951 che distrusse una grande area sul delta del Po. Come dire che gran parte della storia della capitale lombarda del riso, in realtà, parla in dialetto veneto. 

Un esempio per tutti è a Cergnago, un  paesino di circa 700 abitanti, tra Mortara e Lomello, dove la migrazione dal Nord Est italiano ha rivoluzionato i connotati del paese, le sue abitudini, la storia stessa dei cittadini.  Anche perché qui l’arrivo dal delta del Po era iniziato ben prima dell’alluvione. «La mia famiglia è arrivata in Lomellina nel 1943 – racconta Sergio Bovolenta, cergnaghese di adozione da decenni – noi abitavamo a Donada, in provincia di Rovigo, poi riunita con Contarina a formare il Comune di Porto Viro. Dalle nostre parti tutti lavoravano in agricoltura e siamo venuti in Lomellina perché nostri parenti erano già da queste parti e ci segnalavano come ci fosse necessità di salariati per le risaie, che esigevano di una grande forza lavoro».

Papà Palmerino Bovolenta ha sei figli, tre maschi ne tre femmine. Un  caso piuttosto frequente di famiglia numerosa, perché dopo gli anni della bonifica del delta del Po viene offerta ai braccianti agricoli un’abitazione e un pezzo di terra in proporzione al nucleo famigliare: più figli significa più terra, più lavoro. In cambio le famiglie pagano un canone di riscatto che li dovrebbe portare a diventare proprietari del fondo. «Ma il raccolto non bastava a sopravvivere – ricorda Bovolenta – e i braccianti se ne andavano, gettando le basi di un latifondo che avrebbe caratterizzato l’economia agricola locale. In Lomellina c’era il riso, cioè tanto lavoro, e mio padre ha deciso di venire qui, avendo la prima casa a Zeme. Anche da noi c’era il riso, ma il terreno veniva preparato tutto con il solo uso dello zappone, cioè di una grossa zappa che lavorava solo a forza di braccia. Una fatica immane».

Nel delta del Po il terreno era intriso d’acqua, pieno di fermentazioni, tanto che ai braccianti bastava immergere tubi di cemento per circa un metro di profondità per ottenere gas combustibile. Quasi tutti poi si dividevano tra agricoltura e pesca per arrotondare il bilancio famigliare. «Lavoravano come bestie ma non riuscivano neppure a mangiare – ricorda Bovolenta – dunque addio Polesine! A Zeme io frequentavo l’asilo. Poi la mia famiglia si trasferì e infine io sono arrivato a Cergnago, dove la comunità veneta è molto numerosa». Papà Palmerino fa il cavallante e diventa uno specialista nella semina a mano dei vivai di riso, poi alla sera intaglia i tronchi di ontano per fare zoccoli, sfruttando la resistenza del legno di una pianta autoctona, che si trova perfettamente a suo agio nella terra umida che circonda i fontanili e i cavi di irrigazione. Sergio frequenta le elementari con profitto e poi ha la possibilità di seguire l’Avviamento Professionale, una scuola secondaria poi scomparsa con l’avvento della scuola media unificata, ma deve rinunciare perché ci vorrebbe una bicicletta e non ha soldi per comprarla e perché trova in giro lavoro come tutto fare, riuscendo a raggranellare mediamente 100 lire al mese. «Era la sorte di quasi tutti noi immigrati dal Veneto – aggiunge Bovolenta – ingegnarsi a fare di tutto per pochi soldi, mettere in pratica gli insegnamenti sul lavoro ricevuti in Veneto oppure imparare in fretta a fare qualsiasi cosa, trasformare in risorse gli scarti altrui. E tutto diventava più difficile per l’ostilità che dovevamo affrontare, perché ci dicevano che portavamo via il pane a chi era di qui. Non trovavamo casa e spesso dovevamo arrangiarci in catapecchie». Giù la testa e su le maniche è il motto di questo popolo di italiani in Italia, che si arrabatta a farsi un piccolo spazio di sopravvivenza tra le risaie, che mette a posto baracche per renderle una casa, con tanti bambini al seguito, figli di leggi che dovevano premiare la natalità, ma troppo spesso hanno causato soprattutto una elevatissima mortalità infantile. Le donne fanno le mondine e le sarte, gli uomini recuperano la loro arte di pescatori nei canali irrigazione, per rimpolpare tavole povere, per alleviare la sofferenza della denutrizione.

Nel 1951 dal delta del Po arriva un altro vero esercito di disperati, in fuga dall’alluvione, senza altro che pochi stracci e qualche amico o parente che gli apre la porta di case già stremate dalla fatica e dalla povertà. Poi lentamente le cose cambiano e la Lomellina capisce che quei “forestieri” che parlano un dialetto tanto diverso sono in realtà una risorsa importante tra le risaie, sanno ingegnarsi e imparare in fretta.  «Trovai lavoro all’azienda dei tre fratelli Zampa, ad Albonese – ricorda ancora Bovolenta – e imparai ad abbattere pioppi. Erano brava gente, bravi padroni, dicevamo. Quindi sono riuscito ad ottenere la licenza per vendere legna e carbone e ho comprato una grossa sega circolare per fare assi». Erano gli anni ’60, gli anni in cui qualsiasi cosa si seminasse, qualsiasi idea si  portasse avanti con determinazione, portava al successo. Così i fratelli Bovolenta uniscono le loro forze e si fanno strada. Sergio trova anche una moglie della sua terra. I lomellini cambiano il loro atteggiamento verso un popolo che ha dovuto soffrire tante peripezie, ma che proprio grazie alla difficoltà della coltivazione del riso, qui ha saputo farsi valere. Uomini e donne spesso di bell’aspetto, forti e dal carattere estroverso, che riescono a conquistarsi simpatia, che animano la vita del paese. «Grande fu la soddisfazione quando chiesero a mia moglie di insegnare l’arte di fare la nostra polenta, qui sconosciuta – termina Bovolenta – oppure il riso e fagioli alla nostra maniera. Credo che tante usanze oggi locali, lomelline, siano in realtà quelle che noi veneti abbiamo portato qui». Come dire che i chicchi di riso, veneti, lombardi o piemontesi, sono stati un ponte per unire gente tremendamente uguale. A sua insaputa. Autore: Giovanni Rossi

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