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DOCCIA SCOZZESE SUI PREZZI ITALIANI?

da | 8 Giu 2014 | NEWS

Il dossier anti-Cambogia predisposto nelle scorse settimane e che vi abbiamo presentato in anteprima ha due conseguenze: una è politica, l’altra economica. Sul piano politico dimostra l’utilità dell’Ente Risi come think tank interprofessionale: quando c’è un’unità (anche minima) e si condividono le informazioni non è impossibile realizzare delle buone politiche a tutela della filiera e del prodotto. Come abbiamo scritto, il lavoro sul testo è durato mesi e in questi mesi è stato possibile far convergere sulle posizioni italiane anche altri Paesi produttori, non sempre inclini a fare fronte comune con Roma, e soprattutto Paesi che non producono riso ma lo confezionano e lo commercializzano, come il Regno Unito, che oggi sull’argomento Cambogia – a quanto ci dicono – ha posizioni più simili alle nostre. Sul piano economico c’è meno da star allegri. Il dossier che vi abbiamo presentato elenca una serie di dati e di proiezioni che dimostrano alcune cose. La prima: i costi delle aziende risicole italiane non permettono al prodotto nazionale di essere competitivo e senza Pac siamo completamente fuori mercato. Lo sapevamo già, ma prima l’Associazione dei laureati in agraria della Provincia di Vercelli, ora il Mise ce lo sbattono in faccia a suon di numeri: per essere competitivo con il prezzo del riso cambogiano che arriva in Europa (438 euro/t) il risone italiano dovrebbe costare 195,29 ma il risicoltore, ai costi attuali, non può accettarne meno di 322 e se consideriamo tutte le voci che permettono di mantenere la redditività agricola e industriale della filiera il prezzo minimo del riso lavorato italiano non può essere inferiore 646 euro/t, quindi non competitivo con i 438 del riso cambogiano. La seconda cosa che si appura alla luce di questi dati è l’insostenibilità di questo divario nel lungo periodo: se infatti è possibile avviare un negoziato con la Cambogia per contingentare le importazioni a dazio zero (c’è un accordo in tal senso con gli spagnoli e lo stesso governo italiano  non è disponibile a battere i pugni sul tavolo di Bruxelles come sarebbe necessario fare per bloccare subito le importazioni a dazio zero dai Pma) per limare quel divario a suon di dazi, non si può pensare di affrontare la seconda metà degli anni Dieci con questi costi. Arriviamo così alla terza cosa che dimostra il dossier, la più dolorosa per i risicoltori. Quel prezzo teorico di 195,29 euro a tonnellata che il nostro risone dovrebbe costare per poter essere competitivo è già realtà, perché i mercati di Milano e di Vercelli hanno perso terreno in breve tempo sul riso indica, arrivando a quota 230 eppure gli scambi continuano a languire e la disponibilità vendibile è ancora importante. La tendenza al ribasso dei prezzi del risone italiano è dunque confermata da questo dossier e i mal di pancia dei risicoltori sono destinati a durare: l’industria non riesce a collocare il riso indica in Europa a quotazioni di acquisto del risone superiori ai 200 euro a tonnellata e continuerà a far fronte comune per farli scendere. Questa Maginot potrebbe influenzarre presto anche il listino delle varietà da interno, su cui si sono concentrati gli investimenti dei risicoltori italiani nel 2014: del resto, un industriale sicuramente influente come Antonio Hernandez ci ha dichiarato il 23 maggio che anche il prezzo del riso japonica è troppo alto: http://www.risoitaliano.eu/il-risotto-sara-il-nostro-basmati/ (08.06.14)

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