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CARO BIO, I CONTI NON TORNANO !

da | 23 Mar 2015 | NEWS, Riso in cucina

foto FlavioSu Riso Italiano è apparso un interessante articolo in cui il risicoltore vercellese Fulvio Stocchi riferisce in termini assolutamente appassionati la sua esperienza di coltivazione del riso con il metodo della cosiddetta Policoltura MA-PI, che credo abbia sollevato parecchia curiosità. Senza alcun risvolto gratuitamente polemico, ma anzi con intenti di costruttivo approfondimento, credo che il contenuto dell’ articolo meriti una breve analisi tecnica. Che non vuole entrare nel merito dell’ impostazione “filosofica” di questo tipo di iniziative (e che potrà, al limite, interessare chi si occupa, appunto, di filosofia), né delle conseguenze “dietetiche” che ne derivano, e che esulano dalle competenze di chi scrive, ma evidenziare alcuni spunti di riflessione ed alcune incongruenze di tipo tecnico-economico che saranno già balzate all’ occhio degli attenti lettori di Riso Italiano.

Purtroppo, forse per ragioni di spazio, l’ autore di http://www.risoitaliano.eu/io-risicoltore-alla-ricerca-del-vero-bio/ non fornisce alcun elemento per approfondire ed esaminare dal punto di visto scientifico dell’agronomo la tecnica colturale effettivamente adottata (a parte qualche generica indicazione circa la consociazione di più specie “di stagione”), mantenendosi in un ambito di complessiva indeterminatezza sui metodi di coltivazione realmente praticati e limitandosi ad affermare che la “policoltura” richiede “poco lavoro” a fronte del “molto lavoro” richiesto dal convenzionale.

Ciò che tuttavia lascia maggiormente perplessi è il “raffronto economico” tra la situazione ex ante (convenzionale) ed ex post (“bio”) dell’ azienda oggetto di conversione al metodo MA-PI. Dando per scontata la buonafede dell’autore, ed escludendo a priori una sua tendenza a “taroccare” i conti esagerando i costi del “convenzionale” e sottovalutando quelli della “policoltura”, le perplessità che derivano dall’analisi del “conto economico” molto elementare allegato all’articolo sono evidenti. Specie se si raffronta questo elementare prospetto con i lavori di analisi dei costi di produzione del riso curati dal collega ed amico Giuseppe Sarasso (che non me ne vorrà per la citazione) e pubblicati in varie sedi, compreso Risoitaliano.

Tralasciando i minimi differenziali di costo tra operazioni che appaiono, almeno in linea teorica, sostanzialmente identiche (non si capisce ad esempio perché l’operazione di semina dovrebbe costare 60 €*ha-1 nel convenzionale e 52 nel “bio”), su altri aspetti sorgono parecchi punti di domanda. Il riso, come noto, non è una coltura “sarchiata”. A che serve quindi la sarchiatura? Forse l’autore definisce impropriamente sarchiatura il passaggio con l’erpice strigliatore che nel “vero bio” sembrerebbe contribuire al contenimento delle infestanti (secondo qualcuno la presenza o meno nel parco macchine aziendale dell’erpice strigliatore è un buon indizio del fatto che il bioagricoltore sia autentico o “farlocco”). Ma perché l’azienda in questione avrebbe dovuto effettuare un’operazione tecnicamente immotivata come la sarchiatura sul riso convenzionale? Depennato il relativo costo (40€*ha-1) da quelli del convenzionale, non si può che restare incuriositi dal forte differenziale di costo dichiarato tra le operazioni di livellazione e slottatura del convenzionale (120+40 €*ha-1) e della sola livellatura nel “bio”(30 €). A meno che, ma siamo nel campo delle interpretazioni, il sig. Stocchi non chiami molto impropriamente “sarchiatura” il passaggio con erpice vibrocoltivatore che si realizza dopo livellamento con attrezzatura a controllo laser e che intenda implicitamente dire che queste operazioni si realizzano con periodicità quadriennale (anche su questi aspetti un chiarimento di tipo tecnico potrebbe risultare utile).

Ma è sul costo dei trattamenti fitosanitari dell’azienda nella sua fase “convenzionale” che qualcosa non quadra, ed in maniera alquanto evidente e clamorosa. L’autore riferisce un costo ettariale di 590 € per “diserbo e fungicida”, che appare in stridente e clamoroso contrasto con il dato medio calcolato nei citati studi curati da Sarasso, da cui emerge un costo per trattamenti fitosanitari oscillante tra 257 e 270 €*ha-1 a seconda della dimensione aziendale dell’ impresa risicola. Contrasto tanto più strano e stridente se si considera la sostanziale concordanza tra il costo per fertilizzanti calcolato da Sarasso (oscillante tra 366 e 384 €*ha-1) e quello dichiarato dall’autore per l’azienda in produzione convenzionale (390 €*ha-1), con un differenziale che potremmo considerare rientrante nell’insignificanza statistica.

Com’è possibile che l’azienda in questione avesse costi per trattamenti fitosanitari più che doppi rispetto alla media nazionale, non giustificabili anche comprendendo nel costo i relativi oneri di meccanizzazione? Le ipotesi sono tante ma può rispondere solo l’interessato. Costi di quel tipo si ravvisano solo quando l’agricoltore effettua trattamenti tecnicamente sbagliati e quindi, ipso facto, inquinanti? Parlo di un sovradosaggio di prodotti fitosanitari e in effetti le basse produzioni del convenzionale dichiarate dall’autore potrebbero far sorgere il dubbio di un qualche danno da fitotossicità da improprio dosaggio o impropria miscelazione subito dalla coltura… Ma sono supposizioni che devono essere vagliate dal nostro interlocutore. La questione tuttavia non è peregrina, perché su di essa verte una parte non irrilevante della problematica. Tanto più che le stesse anomalie che si riscontrano nei conteggi di Fulvio Stocchi emergevano da un “raffronto economico” fatto nel 2005 da un altro risicoltore convertitosi alla “policoltura”. Egli dichiarava addirittura 643 €*ha-1 di costi per difesa fitosanitaria (del 2005!), di cui 297 di solo fungicida (che corrisponderebbe al costo di 3 kg*ha-1 del più comune prodotto commerciale, ad un dosaggio cinque volte superiore alla dose di etichetta!). Troppo per non pensare a qualche errore nell’impostazione e gestione delle strategie di protezione fitosanitaria o nel calcolo dei relativi costi.

Ulteriore spunto di riflessione e di qualche perplessità è fornito dal dato produttivo riferito dall’agricoltore “pianesiano”, che dichiara una produzione di sole 5 t*ha-1 nel convenzionale. Nessun dubbio che ciò corrisponda all’effettiva produttività aziendale nel periodo in cui essa era condotta con metodo convenzionale (sarebbe interessante sapere con quali varietà, considerando che il prezzo di vendita riferito dall’autore – 400 € per tonnellata – farebbe pensare a varietà di non altissimo pregio. Ma è del tutto chiaro che l’azienda in questione realizzava una produttività fortemente inferiore alla media nazionale (compresa tra 6,60 e 6,81 t*ha-1 nell’ ultimo triennio, secondo dati ENR), forse anche a causa delle particolari condizioni pedoclimatiche della zona in cui essa è situata. Ed è evidente che, partendo da produttività così basse, il differenziale negativo nella produzione realizzato con la conversione alla “policoltura” (-30%) può essere più agevolmente compensato dall’incremento del prezzo di vendita (+60%) del risone (anche qui sarebbe interessante sapere con quali varietà, visto che il prezzo di vendita dichiarato è sensibilmente inferiore a quello registrato dalle mercuriali per il riso “bio”, attualmente pari a 800-830 euro per Balilla/Loto).

Il discorso cambia per un’azienda che parte da una situazione di produttività normale e con costi di produzione normali (specie per quanto riguarda i trattamenti fitosanitari) per la quale la perdita di produzione ammonterebbe al 50% circa (dando per buoni i valori di produttività della “policoltura” riferiti dall’autore), a fronte di riduzioni di costi molto più modeste. Probabilmente l’entusiasmo del risicoltore convertitosi alla “policoltura” è quindi influenzato dal suo punto di partenza e da una situazione imprenditoriale di base verosimilmente inferiore al concetto di “ordinarietà” tante volte richiamato dall’ estimo. Che assume, nel caso di specie, un valore discriminante decisivo. D’altro canto, esulando dagli aspetti tecnico-economici, non può che suscitare curiosità l’affermazione dell’ autore circa il fatto che con la conversione alla “policoltura MA-PI” si sarebbe «tutelati in caso di maltempo» a differenza di quanto avverrebbe nel convenzionale. Da tecnico, devo chiedermi da quale dato oggettivo sia supportata tale affermazione.

Con questo, sia chiaro, vale la pena di ribadire che il confronto basato su risultanze scientifiche, non su posizioni preconcette, apodittiche o dogmatiche, appare un elemento essenziale nella costante attività di ricerca e sperimentazione per garantire un’evoluzione della produzione agricola verso standard di sempre maggiore sostenibilità. Che, come diceva il prof. Bonciarelli, è un concetto economico e sociale non meno che ecologico. Per questo l’attuazione di metodi produttivi sempre più improntati alla sostenibilità non potrà prescindere dal razionale utilizzo di tutti gli strumenti, da quelli più “tradizionali” a quelli tecnologicamente più sofisticati, messi a disposizione dal progresso scientifico. Autore: Flavio Barozzi, agronomo – flavio.barozzi@odaf.mi.it (22.03.15)

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