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LO SCIENZIATO CON LA ZAPPA

da | 22 Nov 2020 | Non solo riso

siccità

Una vicenda che va da Balzola, in provincia di Alessandria, alle isole Galapagos, passando per quasi tutta l’Africa, la Cina, l’Equador, e un’altra ventina di nazioni, in un vero film d’azione che ha come trama il riso.  Il regista è Antonio Finassi, un contadino-ricercatore che ha portato intorno al pianeta un modello di genialità italiana che rimane oggi, troppo spesso, un ricordo piuttosto sbiadito. E pensare che quello che è considerato il maggiore esperto di meccanizzazione risicola in Europa da ragazzino faceva a gara con le mondine nella faticosa arte del trapianto, rigorosamente a mano. «I miei sono originari di Livorno Ferraris – racconta Antonio Finassi – e io sono nato a Balzola per caso, a causa delle frequenti migrazioni di mio padre in cerca di qualche piccola proprietà da affittare e coltivare. La mia era una vera famiglia contadina, e io sono cresciuto con la zappa in mano, perfettamente integrato nella vita di cascina. Ricordo mio nonno che era fattore. Poi siamo arrivati a coltivare la Costanzana, di circa 800 giornate, più o meno 300 ettari di terreno».

 Antonio Finassi e la sua passione per la risaia

Il giovane “contadino” Antonio Finassi non riesce ad abbandonare la sua passione per la risaia anche quando frequenta le medie al Convitto San Giuseppe a Vercelli, poi il liceo scientifico e l’università di Agraria. Si laurea nel 1955 a Torino e poi parte per il militare fino al 1958.  «Tornato dal militare – ricorda Finassi – fui convocato dal docente con cui avevo realizzato la tesi che mi chiese se ero interessato a seguire il problema meccanizzazione presso la Stazione di risicoltura di Vercelli e dal 1959 mi sono ritrovato a occuparmene per conto del Consiglio nazionale delle ricerche».  Era solo la prima di una lunga serie di offerte di lavoro, perché per il giovane “ex contadino” la vita sarebbe poi stata una lunghissima serie di offerte di collaborazione, in giro per il mondo. Senza dover cercare nulla. Il filo di nota della sua carriera professionale è tanto semplice quanto infinitamente complesso: progettazione, controllo e monitoraggio di progetti di meccanizzazione agricola. «La mia regola – chiarisce Antonio Finassi – partì subito da un principio, vale a dire calcolare il costo – beneficio in chili di risone. Questo perché in nazioni così diverse e distanti tra loro non ha senso esprimere cifre in denaro, ma si deve tenere conto dell’incremento della produzione reale e del costo che questo comporta. Perché non tutto ciò che è possibile è anche economico e conveniente».

La spinta alla meccanizzazione proviene da quella fase di aumento del costo della manodopera che si sviluppò dagli anni ’50. Le mondariso iniziarono a non essere più un costo affrontabile, arrivarono quelle dall’Abruzzo, persino dalla Calabria e quindi i diserbanti e la semina meccanica.  E se in Italia fecero la loro comparsa le botti da 300 litri per diserbare le risaie, in tutto il mondo Antonio Finassi porta avanti quella volontà di ridurre la fatica del loro, che è sinonimo di progresso. «I problemi erano di tutti i tipi – ricorda il ricercatore del Cnr – spesso avevamo a che fare con politici che volevano l’innovazione a tutti i costi, senza tenere conto dei benefici reali. E poi quasi sempre dovevamo fare i conti con la totale assenza di infrastrutture che impedivano di completare i progetti. Bastava una vite che si rompeva a fermare tutto. Ma non solo, meccanizzare significa anche ridurre la manodopera, cioè togliere lavoro, con conseguenza sociali pesantissime. Non nascondo che a volte me la sono vista brutta per le proteste dei contadini nelle aree più svantaggiate». Dunque meccanizzare sì, ma attenzione al fatto che sia davvero una scelta conveniente e che il costo sociale non si trasformi in una perdita secca. Non per nulla se si chiede a Finassi quale sia il progetto che più ha funzionato ricorda quello fatto in Albania, dove in soli due anni la produzione di riso e mais è aumentate del 40 per cento su un’area sperimentale di ben 2000 ettari. E la vicina Albania non è certo la Tanzania o la Nigeria…

«Oggi – commenta Antonio Finassi – ho la soddisfazione di portare fotocopie di miei studi come risposta a nuovi progetti di meccanizzazione che non hanno futuro. Il riso ha dei precisi limiti nello sviluppo della meccanizzazione, dovuti all’ambiente umido, dove le malerbe strappate fanno nuove radici. Inoltre bisogna fare attenzione al fatto che se i costi della meccanizzazione sono il 20 per cento e li riduciamo del 30 per cento, in realtà abbiamo ottenuto benefici del 6 per cento e non sempre il gioco vale la candela».  Molta attenzione dunque a progetti di “agricoltura di precisione” dove la vera difficoltà è quella di poter utilizzare, da parte dei risicoltori, degli strumenti estremamente complessi.  «L’unica prospettiva reale – spiega Finassi – è l’aumento delle produzioni. Non è la meccanizzazione ma la genetica che può salvare i bilanci delle aziende. Dobbiamo puntare al traguardo del 100 quintali ettaro con l’uso di varietà ibride che possono segnare la svolta nella coltura. Devo ammettere che oggi mi viene da ridere quando sento che si vuole ritornare a vecchie varietà, come se si dicesse che, per risolvere il problema viabilità, si deve viaggiare con una Balilla a tre marce! Il futuro è il controllo elettronico delle operazioni colturali, per perfezionare ogni fase di distribuzione della semente, dei diserbanti e dei fertilizzanti. Ci sono ancora spazi di manovra, senza pensare che ci possano essere rivoluzioni».

La “vita da cinema” di Antonio Finassi potrebbe andare avanti per ore ed è lui stesso a non nascondere di avere avuto la straordinaria fortuna di aver fatto tutto ciò che lo appassionava. Per cui oggi stare forzatamente in casa per la pandemia non è poi un sacrificio, ma è cullarsi in straordinari ricordi, tra difficoltà di lavoro, ma anche esperienze non certo comuni e sempre indimenticabili. E poi dalla sua finestra di casa vede il suo orto, 200 metri quadri di aiuole ordinate, fatte rigorosamente a mano e coltivate sempre con impegno. Perché le radici contadine sono un abito che non si smette mai.  Autore: Giovanni Rossi

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