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MARTINA SBAGLIA ETICHETTA

da | 19 Mar 2017 | Norme e tributi

Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali ha reso noto che il Consiglio dei Ministri ha approvato  lo schema di decreto attuativo che reintroduce l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta. Apparentemente ciò rappresenta una buona notizia per la nostra filiera e invece no, per almeno due motivi. Quest’obbligo era già sancito dalla legge italiana, ma è stato abrogato in seguito al riordino della normativa europea in materia di etichettatura alimentare: l’Italia ha stabilito la sua reintroduzione – secondo il Mipaaf – al fine di garantire, oltre che una corretta e completa informazione al consumatore, una migliore e immediata rintracciabilità degli alimenti da parte degli organi di controllo e, di conseguenza, una più efficace tutela della salute. Sul piano procedurale, lo schema di decreto sarà inviato ora alle Commissioni agricoltura di Camera e Senato per i pareri. La legge di delega affida la competenza per il controllo del rispetto della norma e l’applicazione delle eventuali sanzioni all’Ispettorato repressione frodi (Icqrf). Il provvedimento prevede un periodo transitorio di 180 giorni, per lo smaltimento delle etichette già stampate, e fino a esaurimento dei prodotti etichettati prima dell’entrata in vigore del decreto ma già immessi in commercio.

Sul piano economico, questo provvedimento non è in grado di fare alcun bene all’agricoltura: contrariamente a quello che chiede il mondo agricolo, l’obbligo in questione riguarda solo l’indicazione dello stabilimento di produzione o confezionamento, se diverso dal responsabile del prodotto, e non l’origine della materia prima utilizzata. Questa è la prima ragione per cui non si comprende come mai il ministro Martina si sia dato tanto da fare per una innovazione che, semmai, valorizza il prodotto industriale italiano e quindi è di competenza del ministro Calenda, titolare del Mef. Inoltre, seconda perplessità, la norma che reintroduce un obbligo che il regolamento comunitario aveva fatto decadere, può creare un conflitto con Bruxelles proprio nel momento in cui il mondo agricolo avrebbe ben altro da chiedere, a partire dalla clausola di salvaguardia per il riso. Entrando nel merito, infine, probabilmente la norma non si applica a chi produce in altri Paesi Ue e vende in Italia e indebolisce la responsabilità della grande distribuzione che, a fronte di tale obbligo, vede accrescersi la possibilità di rivalsa sul produttore industriale. Per tutte queste ragioni, non comprendiamo l’entusiasmo con cui Martina annuncia un successo che non gli dovrebbe neppure appartenere e che potrebbe non essere un successo: secondo il ministro, invece, «questo provvedimento si inserisce nel lavoro che stiamo portando avanti per dare massima informazione ai cittadini sugli alimenti che consumano. Per questo abbiamo voluto inserire di nuovo l’obbligo di riportare in etichetta lo stabilimento di produzione dei cibi. Diamo una risposta anche alle tantissime aziende che hanno chiesto questa norma e hanno continuato a dichiarare lo stabilimento di produzione nelle loro etichette. Il nostro lavoro non si ferma qui, porteremo avanti la nostra battaglia anche in Europa, perché l’etichettatura sia sempre più completa. La valorizzazione della distintività del nostro modello agroalimentare passa anche da qui». Mah!

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