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LA CHIMICA CI SALVERÀ

da | 8 Mag 2020 | Non solo riso

Glifosate

L’Italia è la patria di Galileo Galilei (1564-1642) che scrisse: “tra le sicure maniere di conseguire la verità è l’anteporre l’esperienza a qualsivoglia discorso, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero…” Il postulato di base della ricerca scientifica galileiana dice che “l’esperimento per essere valido deve essere ripetibile nel tempo e nello spazio con gli stessi risultati”. Da allora, tra persecuzioni ideologiche varie, la Scienza, seguendo questo metodo, ha fornito un contributo fondamentale al miglioramento della vita della specie homo, con un eccesso di orgoglio autodefinitasi “sapiens sapiens”, che ne ha approfittato per espandersi sulla Terra a livelli oggi eccessivi per le risorse disponibili.  Il metodo sperimentale richiede uno sviluppo lento: un singolo esperimento non può essere attendibile, per cui le ricerche scientifiche devono essere controllate da esperti dello stesso settore (peer review) prima di essere pubblicate. Dopo essere stati pubblicati gli esperimenti vengono ripetuti da altri ricercatori; se validata, una scoperta può ritenersi attendibile. Un ingrediente indispensabile della ricerca è l’ONESTÀ INTELLETTUALE dello scienziato, sempre messa a prova dal desiderio di popolarità, e dalla necessità di trovare fondi per la prosecuzione della sua attività.  Serve anche UMILTÀ nell’interpretare i risultati: ogni scoperta non è definitiva né dogmatica, ma rappresenta un passo in avanti della nostra CONOSCENZA, spesso con vantaggi pratici per l’umanità. La situazione attuale della ricerca pubblica, miseramente finanziata, con risorse assegnate da politici mediamente digiuni di conoscenze scientifiche, richiede che i ricercatori per ottenere finanziamenti propongano proposte attrattive per un pubblico altrettanto digiuno. I primi risultati, non ancora validati, vengono divulgati come risoluzione di problemi quando sono ancora nella culla, e devono ancora diventare adulti prima di essere applicabili. Molti ricercatori eseguono ricerche finanziate da ditte private, che le finalizzano, nel migliore dei casi, a migliorare i propri prodotti, altrimenti ad ottenere indicazioni da utilizzare nel marketing seguendo le mode del tempo. Ma i politici, quando si trovano di fronte a problemi gravi, come una epidemia, dimenticano tutto questo, e pretendono dalla Scienza indicazioni precise ed immediate sui comportamenti da tenere. Alcuni ricercatori si azzardano in questi giorni a dare pareri senza disporre di dati certi, magari trascorrendo gran parte del loro tempo in interviste a giornali e TV, o nei salotti dei talk show. Diffondendo notizie contrastanti tra loro hanno gravemente danneggiato la credibilità degli scienziati seri, che invece non si pronunciano e trascorrono il loro tempo nei laboratori: solo da questi ci possiamo aspettare dei risultati utili, quali medicine efficaci e vaccini, in tempi ragionevoli. 

La natura

Le leggi umane sono elaborate per coordinare la convivenza sociale, e mutano seguendo ogni refolo del vento mediatico. Le “leggi della natura” invece non sono state scritte dal pensiero degli uomini, ma ricavate, dopo l’adozione del metodo Galileiano, dall’osservazione e sperimentazione della realtà. Gli atomi si raggruppano in molecole stabilendo tra loro i legami dettati dalla loro costituzione fisica, inglobando od espellendo energia, come descritto dai trattati di chimica. Gli esseri viventi sono costituiti da aggregati di molecole, che sono in grado di replicarsi. Ogni individuo, che sia semplice come un virus, o complesso come un mammifero, è programmato per riprodursi, al fine di garantire la sopravvivenza della propria specie. Ma la riproduzione per varie ragioni non avviene sempre identica: come dimostrato da Charles Darwin ogni specie segue un processo evolutivo, durante il quale ogni riproduzione crea nuovi soggetti diversi dai genitori. Alcuni di questi si rivelano poco adatti all’ambiente dove si trovano, e periscono, mentre altri, più adatti, sopravvivono. La sopravvivenza dipende dalla possibilità di crescere, nutrirsi e riprodursi in competizione con tutti gli altri esseri viventi, appartenenti alla biodiversità del luogo. Una definizione semplicistica, ma incisiva, della natura potrebbe essere quella di Woody Allen: “un gigantesco ristorante, dove ogni commensale cerca di mangiarne qualcun altro”. La natura è per noi benefica oppure no? La natura è arbitro imparziale: le specie che sono più competitive si guadagnano gli spazi più ampi. La nostra specie, che corre meno veloce ed ha sensi meno sviluppati di molti suoi concorrenti, si è ricavata i suoi spazi grazie alle proprie conoscenze nei più svariati campi, dalla fisica, alla chimica, alla medicina, all’agronomia. Vogliamo tornare a giocare ad armi pari con le altre specie? La consistenza numerica della nostra specie ha fatto registrare una crescita tumultuosa in particolare negli ultimi due secoli, nei quali gradatamente ha quasi azzerato la mortalità infantile, curato moltissime malattie, ridotto la fame, aggirando così la selezione naturale che permetteva la sopravvivenza solo a chi possedeva un sistema immunitario molto efficiente, e si accontentava di una alimentazione spartana. Le nostre capacità di sopravvivenza in un ambiente “naturale” sono andate perdute; se rifiutassimo di utilizzare le applicazioni della scienza rischieremmo l’estinzione.

La biodiversità

La tutela della biodiversità e dell’equilibrio naturale nel secolo attuale è diventato un mantra condiviso dai più. Gli avvenimenti dei nostri giorni dimostrano, a coloro che ne erano inconsapevoli, che l’equilibrio naturale non è uno status acquisito, ma una variabile che somma le competitività relative di tutti gli esseri viventi componenti la biodiversità. Ogni mutazione genetica di successo, come le mutazioni climatiche, favoriscono l’espansione di alcune specie a scapito delle altre. La mutazione di un virus oggi sta rallentando, per altro con numeri non significativi rispetto al totale, l’espansione della specie umana. Questo è sempre successo nel passato per altri virus e microbi vari, parassiti che non sono mai riusciti a prevalere su tutti i loro potenziali ospiti, selezionando così quelli dotati dei migliori meccanismi di difesa. La Storia riporta di epidemie che hanno ridotto la consistenza della specie homo in certe aree del 50% e più, e di epidemie sulle piante coltivate, che causarono carestie capaci di altrettante, se non maggiori, riduzioni. La nostra specie, tramite la propria conoscenza, ha cercato di combattere sia i parassiti propri, sia quelli delle piante commestibili, per ricavarsi maggiori spazi sulla Terra. L’espansione della specie homo sapiens, passata da meno di un milione di individui ai tempi dei cacciatori-raccoglitori (1,5 milioni -12.000 anni fa), ai 7,7 miliardi di oggi, ha inevitabilmente compresso gli spazi e le possibilità di espansione delle altre specie. Questo non grazie alla propria evoluzione fisica, ma solo come risultato delle scoperte che hanno permesso di esercitare una supremazia tecnologica. Grazie ai farmaci, dapprima ricavati dai vegetali, e poi, con maggiore efficacia, sintetizzati grazie alle conoscenze chimiche, l’uomo ha tenuto a bada le componenti della biodiversità a lui ostili. Lo scopo dell’attività agricola sta proprio nel modificare la biodiversità combattendo le specie che ostacolano la produttività di quelle commestibili per l’uomo e gli animali allevati.

Le fobie: la chimica dei “pesticidi”

Il passato dell’Umanità si è svolto tra le ricorrenti carestie che hanno limitato costantemente la crescita della popolazione mediante l’insufficiente produzione fornita dall’agricoltura primitiva. Il fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti, tra l’altro primo scopritore nel 1765 delle malattie fungine delle piante, consultò nel 1750 gli archivi della Signoria di Firenze, elencando e descrivendo le carestie ed epidemie verificatesi dal 1165 al 1749 (http://www.georgofili.it/download/1075.pdf).  La Signoria era molto ricca e poteva permettersi di importare, in caso di necessità, grano dall’estero. Coerentemente con le conoscenze dei tempi, praticava l’agricoltura biologica seminando varietà tradizionali. Nonostante questo nei 584 anni del periodo esaminato, tutte le volte che le avversità climatiche e le malattie delle piante interessavano tutto il bacino mediterraneo, impedendo l’approvvigionamento esterno, la Signoria subì una carestia ogni sei anni, ed una più importante che causava anche un’epidemia ogni 17 anni. La popolazione mondiale in quel periodo passò comunque da 100 a 600 milioni. Da allora la nascita e lo sviluppo delle scienze genetiche, chimiche, meccaniche e dell’agronomia, coordinatrice dell’applicazione congiunta delle prime tre, hanno permesso di alimentare la popolazione cresciuta nei 270 anni successivi di quasi 13 volte, dai circa 600 milioni agli attuali 7,7 miliardi. In particolare i risultati della “rivoluzione verde” iniziata nella seconda metà del ‘900, quando la popolazione mondiale era di 3 miliardi, dei quali 1 miliardo (33%) sottonutriti, hanno permesso alla nostra specie di espandersi oggi a 7,7 miliardi, dei quali 0,8 (10,3%) sottonutriti (Il numero dei sottonutriti è quello pre Covid 19, probabilmente soggetto a crescere nel breve periodo). Negli ultimi 70 anni il mondo occidentale è passato dalla fame alla dieta. In Europa, ed in gran parte del mondo, le generazioni nate nel secondo dopoguerra si sono in gran parte inurbate, perdendo totalmente il contatto con la natura reale. Se ne sono costruita un’immagine distorta dai fumetti, tipo Heidi e le sue “caprette che fanno ciao”. La loro conoscenza reale della natura si è ristretta alla visione di parchi ameni costruiti e mantenuti dall’uomo nei luoghi di villeggiatura, a confronto degli “alveari” metropolitani. Sono continuamente vittime dei messaggi del marketing che esaltano una natura ideologica in grado di produrre cibo “genuino” senza reazioni chimiche, utilizzate solo dai perfidi ed arretrati agricoltori “inquinatori”. Non sanno che tutto il cibo che consumano si è formato a partire dalle “naturali” reazioni chimiche operate dalla fotosintesi clorofilliana, ed è stato protetto da fitofarmaci chimici, siano essi “tradizionali” come lo zolfo, il solfato di rame, i piretroidi, lo Spinosad, ammessi nelle coltivazioni “biologiche”, oppure moderni “pesticidi chimici”. Entrambe le tipologie sono comunque prodotte dalle aborrite multinazionali della chimica (Big Pharma), le stesse che producono anche i farmaci per uso animale ed umano, ed i vaccini. I severissimi limiti imposti ai residui di fitofarmaci bio e convenzionali talora ritrovati in parti per milione nei cibi, ed i numerosissimi, severi controlli, sono in grado di garantire l’assenza di qualsiasi rischio tossicologico per i consumatori. Non altrettanto sicuro è il cibarsi di vegetali non protetti dalle malattie, specie quelle fungine (presenza di aflatossine), ma a questi importanti rischi si dedicano attenzioni minime.

Le fobie: l’inquinamento

 Le stesse persone demonizzano il traffico automobilistico cittadino, mai quello autostradale nei week-end delle lunghe code verso i luoghi di villeggiatura e quello dei riscaldamenti domestici.  Usano tranquillamente in grande quantità (5 kg pro capite all’anno) prodotti chimici per la pulizia personale e delle case, e si scandalizzano per il ritrovamento di qualche decimo di microgrammo per litro (parti per 10 miliardi) di inquinanti nelle acque dei fiumi. Come principali colpevoli dell’inquinamento vengono arbitrariamente additati l’agricoltura, gli allevamenti intensivi, raramente l’industria. Pochi accennano al consumismo modaiolo che spinge le persone a sostituire di frequente i loro vestiti, i cellulari, le auto, i moltissimi gadget sportivi od elettronici, costruiti per durare poco, con un notevole utilizzo di energia fossile, notevoli emissioni di CHG (gas clima-alteranti) e produzione enorme di rifiuti non degradabili. 

Le fobie: il cambiamento climatico

Le emissioni di CO2 e di altri CHG, dovute in gran parte al consumo di combustibili fossili, sono sul banco degli accusati, ma nessuno vuole privarsi dell’energia necessaria a mantenere gli attuali stili di vita. Come produttori principali di questi gas vengono additati in barba all’evidenza i soliti untori: agricoltura e allevamento. Eppure l’improvviso sostanziale miglioramento dell’aria che respiriamo, constatato a seguito dei provvedimenti adottati per combattere il Covid 19, si è verificato nonostante che l’agricoltura e gli allevamenti continuassero a funzionare a pieno regime. La Commissione Europea ha lanciato un progetto di Green Deal, al momento passato in seconda fila rispetto alla pandemia, con obiettivi molto ambiziosi, molto al di là di quanto sarà possibile attuare. I possibili risultati di adeguamento alla sostenibilità ambientale ragionevolmente ottenibili dall’agricoltura dipendono in primis dalle nuove tecnologie della genetica, al momento ostracizzate da una lunga serie di ostacoli legali. Unico obiettivo condivisibile e forse raggiungibile è quello di investire pesantemente su nuove fonti di energia, avendo la forza di scardinare gli interessi petroliferi. Gli Europei, che per oltre due secoli si sono espansi migrando verso le Americhe e l’Australia, diventandone i dominatori a scapito delle popolazioni autoctone, ed i loro discendenti, hanno riscattato secoli di stenti e miserie mediante le tecnologie e l’utilizzo delle riserve fossili. Le altre popolazioni, in particolare quelle Asiatiche, li hanno imitati, raggiungendo un benessere in fatto di alimentazione e mobilità fino a pochi anni fa a loro precluso. Oggi proprio quelli che sono stati e sono attualmente i principali produttori di CHG predicano agli altri di limitare i propri consumi per ridurne le emissioni. Paiono scontate le risposte risentite di queste popolazioni all’appello Europeo, non più supportato dall’antico predominio militare e finanziario. 

I pericoli ignorati: epidemie e carestie

 Le nuove generazioni, ignare della storia delle persone comuni, che a scuola hanno imparato e presto dimenticato solo nomi e date di Re, condottieri e battaglie, hanno un background culturale che considera “naturali” gli agi conquistati dagli avi in tempi lunghi, mediante i progressi faticosamente compiuti. Le generazioni attuali non hanno mai sperimentato né fame né epidemie, per cui si sono trovate completamente prive di strumenti cognitivi e psicologici per affrontare entrambe le evenienze. In particolare l’odierna epidemia, mentre le generazioni vissute prima del secondo dopoguerra l’avrebbero riconosciuta come normalità ricorrente. Solo inconsce reazioni ataviche le hanno spinte all’assalto degli scaffali dei supermercati per accaparrarsi scorte di cibo. Fino ad oggi al massimo si erano preoccupate del benessere degli animali, demonizzando l’utilizzo delle cavie da laboratorio nella ricerca medica e farmaceutica, insieme ai vaccini ed alla protervia dei Big Pharma, colpevoli di produrre “inutili” farmaci e fitofarmaci di origine chimica. Per non vedere sconfessata l’ideologia della Natura madre benigna, alcuni gruppi di potere interessati a salvare i propri lucrosi affari hanno divulgato l’ipotesi del COVID 19 come prodotto e trasmesso all’uomo dalle coltivazioni OGM, dagli allevamenti ed agricoltura intensivi, o dalla distruzione delle foreste. Non poteva mancare l’ipotesi del Glyphosate. Ipotesi prive di fondamento, e sconfessate dalla scienza con inoppugnabili prove. Hanno colpevolizzato la densità degli allevamenti intensivi e non la densità della popolazione umana eccessivamente affollatasi in certe aree. Eppure basta guardare le fotografie satellitari notturne del mondo, per individuare uno stretto collegamento tra la densità di illuminazione, proporzionale alla densità di abitanti, con i danni dell’epidemia. Ad esempio Pianura Padana, Belgio e le capitali più colpite: Madrid, Londra, New York…  Come sarà il “post pandemia”, dopo che siamo stati negli scorsi due mesi appesi alle labbra degli scienziati, nella spasmodica attesa della scoperta di qualche farmaco chimico efficace o di un vaccino, ovviamente agognati in tempi brevissimi? Continueremo ad ascoltarli, almeno quelli seri che non promettono miracoli, o riprenderemo a seguire le ideologie che aborriscono tutte le pratiche “innaturali” sopra ricordate? Torneremo ad affidarci ai rimedi “naturali” od “omeopatici” ed ai cibi “biologici” o “biodinamici”, che producono la metà del “chimico” per unità di superficie coltivata? Continueremo ad entusiasmarci per delle ricerche durate pochi mesi, che promettono risultati strabilianti, ottenibili, se va bene, dopo un decennio? Continueremo a considerare la chimica come se fosse il demonio? Sarà il caso di rivedere rapidamente le posizioni ideologiche per ritornare alle evidenze sperimentali di stampo galileiano, se non vogliamo affrontare, dopo questa pandemia, anche una carestia. Autore: Giuseppe Sarasso, associato al gruppo SETA – Scienza e Tecnologia per l’Agricoltura

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