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MA SAPETE QUANTO METANO PRODUCE UNA RISAIA?

da | 11 Feb 2018 | Non solo riso, Uncategorized

Tra un mese si vota. Non vi diremo come votare. Diremo ai politici cosa serve ai risicoltori per lavorare. Lo facciamo perché in giro c’è un’idea dell’agricoltura distorta da luoghi comuni. Abbiamo chiesto all’agronomo Giuseppe Sarasso, Accademico dell’Agricoltura di Torino e dei Georgofili di Firenze, di sintetizzare in alcune “pillole” la storia e le prospettive di alcune questioni calde: le offriamo ai nostri lettori e soprattutto ai politici, come vademecum. Chiunque vorrà, potrà inviare a direzione@risoitaliano.eu un breve testo che integri con una proposta questi scritti: sarà riportato in coda, con i riferimenti dell’autore. Un’ultima cosa: non pretendiamo che queste schede siano la “verità”, ma rappresentano le conoscenze tecniche di chi da generazioni coltiva riso, il cereale più diffuso al mondo e quello in cui l’Italia è leader produttivo in Europa. Vale la pena di tenerne conto, se si ama davvero questo Paese.

La concentrazione di metano nell’atmosfera, dopo quella della CO2 importante causa dell’effetto serra, quindi del temuto riscaldamento globale, si è incrementata da 1770 a 1840 parti per miliardo nel decennio 2006-2016. Uno studio recentemente pubblicato da John R.Worden su Nature fa chiarezza sulle sorgenti. Le evidenze da satellite rivelano nel periodo una diminuzione tendenziale delle emissioni da combustione di biomasse, che sono causa di una frazione del totale e sono le più difficili da stimare. Vi sono comunque stati due picchi (1997 e 2006) in Indonesia e Borneo, probabilmente legati al boom della palma da olio, per il quale sono state bruciate ampie porzioni di foresta.

(https://earthobservatory.nasa.gov/IOTD/view.php?id=91564&eocn=image&eoci=moreiotd)

Nel decennio l’emissione di metano da incendi si è ridotta di 3,7 Tg annui ( 1 Tg = 1 Teragrammo = 1 milione di tonnellate). Per giustificare l’aumento totale delle emissioni annue, quelle da fonti fossili dovrebbero essere quindi cresciute di 12÷16 Tg, e quelle di origine biologica di 12÷14 Tg.

E’ stato scoperto che le emissioni biologiche (agricoltura, allevamento e paludi) sono ricche di un isotopo del carbonio, C13, che invece si presenta in quantità minore in quelle fossili. Questo ha cambiato radicalmente le precedenti stime sull’origine delle emissioni di metano, che diventano così per il 48,44% di origine biologica, il 17,34% da combustione, e del 34,21% di origine fossile, dovute a perdite dell’industria estrattiva. La produzione di metano da origine biologica, inferiore alla metà del totale, è attribuita in parte ad agricoltura ed allevamento, ed in parte alle paludi, senza però riuscire a definirne le percentuali. Si stima solo che il riscaldamento globale possa aumentare le emissioni da parte delle paludi, in particolare quelle site nelle zone tropicali e sub tropicali. Le notizie circolanti sulla stampa additano sempre l’agricoltura e la zootecnia come principali responsabili: per riuscire a ridurne l’impatto vengono finanziate molte ricerche, che comunque finora hanno fornito risultati parziali, anche dal punto di vista quantitativo: non è semplice controllare il rilascio diffuso tipico delle attività agrozootecniche. Eventuali limitazioni degli allevamenti potrebbero in parte ridurre le emissioni, a patto che la maggior parte della popolazione accettasse di diventare vegetariana o vegana: oggi scelta di minoranza, che oltretutto solleva dubbi tra autorevoli dietologi riguardo all’efficacia nutrizionale, specie nella crescita dei bambini. Ancor meno accettabili  sarebbero limitazioni delle attività agricole che ne riducano la produttività, soprattutto da parte di chi fatica a procurarsi cibo a sufficienza.

L’attività agricola considerata come maggiore produttrice di metano è la risicoltura sommersa. Grazie alle prove sperimentali effettuate da Sacco D. ed altri presso il Centro Ricerche dell’Ente Risi negli anni 2012 e 2013, sappiamo che le emissioni di metano sono variabili in funzione del clima dell’annata. Come media delle due annate citate, le emissioni di metano ammontano a 185 kg/ha/anno per la sommersione continua, 115 kg/ha/anno per la semina interrata con sommersione differita, e 5 kg/ha/anno con l’irrigazione turnata, ma con riduzione della produzione del 40% e più. Questo nel nostro ambiente; altre ricerche su diverse località forniscono un ampio ventaglio di risultati. Poiché ogni medaglia ha il suo rovescio, la produzione di protossido d’azoto, un gas con effetto serra pari a circa 12 volte quello del metano, nonché responsabile delle piogge acide, ribalta la situazione, con 1 kg/ha/anno per la sommersione continua, 1,6 kg/ha/anno per la semina interrata con sommersione differita, e 4,5 kg/ha/anno con l’irrigazione turnata. La riduzione delle emissioni di metano, convertendo tutte le risaie sommerse del mondo ad irrigazione turnata, applicando indicativamente al mondo intero i  risultati citati, sarebbe misurabile in 12 Tg. Detraendo l’incremento del protossido d’azoto, stimabile in 7,7 Tg di metano equivalente, il vantaggio sarebbe ben poca cosa, rispetto alle emissioni globali. Dato che la risaia coltivata con la sommersione continua copre il 48% della superficie mondiale, ma produce il 75% del risone totale, applicando in toto l’irrigazione turnata, secondo i dati citati, verrebbe a mancare il 30% della produzione mondiale di riso. Ne vale la pena?

Visto l’incremento esponenziale della popolazione mondiale, e la riduzione delle terre arabili dovuta agli insediamenti civili ed industriali, perché non bonificare e coltivare le aree paludose? Tale opzione scatenerebbe l’opposizione dei difensori della biodiversità, che sono contrari anche alla combustione libera di foreste e torbe, posizione purtroppo del tutto ignorata nei Paesi dove ciò avviene in maggior misura. L’emissione da parte dell’industria petrolifera, poco menzionata dalla stampa, è invece generalmente puntiforme, dovuta principalmente a perdite dei pozzi d’estrazione e delle raffinerie, in parte minore alle fughe accidentali della rete di distribuzione. Un adeguamento degli impianti, in questo caso possibile senza pregiudizio per la produzione, obbligherebbe pesanti investimenti finanziari da parte dell’industria petrolifera, che ovviamente è contraria. L’utilizzo dei combustibili fossili è sul banco degli accusati anche per l’emissione di CO2, principale responsabile del riscaldamento globale, oltre che per altri inquinanti prodotti dal traffico veicolare e dalle centrali termoelettriche. Tutti tranne i petrolieri sono d’accordo nel diversificare le fonti energetiche, con risultati per ora limitati. Le opzioni sopra citate sono proponibili e presentano controindicazioni, come tutte le scelte umane; soprattutto necessitano di ingenti investimenti. Occorre trovare fondi adeguati, ed impiegarli in modo da soddisfare in primo luogo i bisogni primari dell’umanità, cercando di limitare i danni alle attività economiche. La soluzione di concentrarsi unicamente sulle attività agrozootecniche sarebbe poco efficace, con risvolti negativi sulla sicurezza alimentare mondiale. Autore: Giuseppe Sarasso.

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