Lo diciamo subito. Non ce l’abbiamo con la Cia, che annovera tra le sue fila fior di risicoltori e di funzionari davvero esperti. Semplicemente non capiamo perché noi italiani dobbiamo confondere l’apertura al mondo con l’autolesionismo. Spieghiamoci. In vista dell’Expo, le organizzazioni agricole e gli enti istituzionali dovrebbero darsi da fare per promuovere le perle del made in Italy. Le varietà di mais selezionate dai nostri alpigiani per preparare le loro squisite polente, il grano antico della tradizione pastaia italiana e naturalmente le varietà di riso japonica che sono alla base dei nostri celeberrimi risotti. E invece che fanno? Promuovono la quinoa! Anzi, coltivano “la quinoa accanto ai pomodori, l’okra con l’insalata e l’ampalaya vicino alle carote” come affermano i promotori del progetto triennale “Nutrire la città che cambia”, promosso a partire dal 2013 dall’Associazione solidarietà e sviluppo (Ases) e dalla Confederazionale italiana agricoltori (Cia) con il contributo di Fondazione Cariplo, mirato a introdurre colture non autoctone nelle aziende agricole lombarde. Non abbiamo parole per commentare questa scelta tafazziana – cioè masochista – e lo sciupio di soldi. Soldi privati, della Fondazione Cariplo, quindi decisione ineccepibile: ma quei soldi – diciamo noi – potrebbero essere più utilmente impiegati nella ricerca di nuove varietà autoctone e quest’aggettivo, lo precisiamo per chi la pensa diversamente, non è ancora una parolaccia. Dicevamo che non ce l’abbiamo con la Cia, perché non è certo la sola organizzazione incline a seguire le sirene dell’Expo e a confondere l’integrazione con la rinuncia alla propria identità agricola e alimentare. Siamo convinti tuttavia, e ciò non vale solo in agricoltura, che l’integrazione sia una cosa bellissima ma non significhi che il contadino italiano si mette il chullo, che è il tipico copricapo delle Ande, e il gonnellino di paglia e corre a sostituire il trattore con il mulo, semmai che gli immigrati sfruttati a Rosarno e dintorni abbiano la possibilità di imparare a coltivare i pomodori in un orto di loro proprietà, sfruttando tutto il know how italiano e i privilegi del progresso tecnologico. Quello che invece va in scena nell’imminenza dell’Expo è un’orrifica parodia dell’agricoltura e della ristorazione, che non rappresenta affatto la ricchezza e le potenzialità dell’agricoltura italiana e non lo fa per il motivo più banale: perché un discorso serio sull’agricoltura necessita di competenza, entra fatalmente in conflitto con i signori della grande distribuzione e dell’industria e non ha l’appeal mediatico degli imbonitori alimentari, dagli stregoni dello slow food alle vestali del cotto e mangiato. “Abbiamo portato nei nostri campi specie vegetali che sono alla base dell’alimentazione dei popoli asiatici, africani e del Sud America, ovvero le zone del mondo da cui provengono la maggior parte degli stranieri che hanno deciso di vivere a Milano e in generale sul territorio lombardo. Accoglierli significa anche consentire loro di trovare alcuni dei cibi che sono abituati a consumare. Quindi abbiamo chiesto ad alcuni agricoltori della zona di coltivarli – spiega Paola Santeramo, direttore di Cia Milano-Lodi-Monza e Brianza, in occasione del convegno organizzato a Palazzo Reale per fare il punto sulla sperimentazione – La risposta è andata oltre le nostre aspettative: siamo partiti con sei aziende e altre tre hanno chiesto di poter partecipare in un secondo momento, indotte dalla crescente domanda di prodotti ‘esotici’ da parte del mercato”. Peccato che, per restare alla quinoa, chi l’ha studiata seriamente abbia accertato che non può crescere alle nostre latitudini. Nel 2014, la Provincia di Pavia, in collaborazione con l’Ente Nazionale Risi che possiede un centro ricerche internazionale in grado di sapere veramente come si coltivano i cereali, ha seminato quinoa a Vigevano. Risultato? Sarà perché in commercio non si trova dell’ottimo seme, sarà soprattutto perché quella graminacea soffre il ristagno idrico tipico della Pianura Padana, non si è riusciti a produrre nulla. Nulla! L’Università di Piacenza, in collaborazione con un agronomo peruviano, ha avuto maggior fortuna, provando in tre areali diversi, ma anch’essa ha dovuto prendere atto che il ristagno idrico è un fattore ostativo, cui si aggiungono altre difficoltà di ordine agronomico. A questo punto, precisiamo che non ce l’abbiamo neanche con la quinoa, perché prima di questa pianta la bassa ha accolto altre specie esotiche: il riso è una di queste. Ma ci chiediamo: in un momento di crisi nera per la cerealicoltura italiana, con l’Expo alle porte e il riso italiano escluso dal cluster, è sensato promuovere la quinoa? (02.02.15)
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